[separator type=”thin”][dropcap letter=”M”]io figlio è nato negli Stati Uniti da madre surrogata il 14 aprile, giorno del picco della pandemia americana. Motivo per cui purtroppo non ero presente al parto. Ho visto le immagini in differita. Adesso non vedo l’ora di abbracciarlo e riportarlo in Italia, a Reggio Calabria dove vivo e insegno all’università. Il problema non è solo il viaggio (Trump ha sospeso i voli dall’Italia fino al 4 maggio) ma l’ingresso in una nazione in lockdown. Per capire come muovermi ho chiamato praticamente tutti, dalle ambasciate ai border office degli aeroporti americani in cui è presumibile atterrare. A ognuno dico: “devo andare a prendere mio figlio”. Un’impiegata gentilissima del JFK di New York mi ha assicurato che posso entrare se in possesso del certificato di nascita di mio figlio (sono il padre biologico). Peccato che per l’ambasciata americana in Italia l’ultima parola spetta all’ufficiale di frontiera. Anche munito di visto di ricongiungimento familiare. E se non mi fanno entrare? Boh, la risposta non la sanno neanche loro. Forse – scherzo – mi buttano in una stiva e mi fanno ritornare. In ogni modo appena riprendono i voli parto. Poi risolvo di persona. Nel frattempo, spero per non più di due settimane, a prendersi cura di mio figlio Enea c’è Kristy, già mamma surrogata di tre bambini (oltre a tre suoi) consigliatami dall’agenzia di surrogacy che mi ha seguito fin qui e che si sta facendo in quattro per trovare una soluzione in quest’emergenza planetaria. Su mia delega la tutor – io la chiamo tata – ha richiesto il certificato di nascita di Enea in ospedale e con questo in tasca l’ha portato a casa sua in Texas. A 22 ore di auto da dove è nato, in Idaho. In attesa dell’arrivo mio e di mio marito.
Il mio percorso interiore per diventare papà è cominciato 12 anni fa. Seguendo un desiderio che ho sempre sentito, nel cuore e nello stomaco. Da quando poco prima di dire ai miei di essere gay, a 18 anni, mi fidanzai con una ragazza. Ho cominciato da internet (se digiti “surrogacy” appare l’impossibile) contattando le agenzie negli Usa e in Canada dove la maternità per altri esiste da 30 anni. Tra un’informazione e una riflessione capisco che sarà difficile condividere questo mio desiderio di paternità con un compagno. Anzi, con l’ultimo, prima di mio marito, ci siamo lasciati proprio per questo. Ma è sulla spinta di quell’addio che quattro anni mi decido a richiamare la consulente italiana dell’agenzia californiana di surrogacy che mi aveva colpito per empatia: “cominciamo!”, dico. Accompagnato dal mio migliore amico Michele, nel settembre 2016 a Los Angeles incontro il dottore della clinica designata, lascio il mio seme e firmo i contratti. Tornato in Italia comincio la ricerca online della donatrice di ovociti (per legge è diversa dalla madre surrogata). Lo screening dura un anno. Perché su 700 possibili candidate le ragazze che scelgo non sono disponibili al momento. Alla fine le mie preferenze si concentrano su una ragazza dai capelli rossi e una studentessa stile Rihanna. La prima rifiuta, la seconda accetta. Mio figlio avrà la pelle più scura della mia. La scelta si rivela fortunata: la ragazza bella come una pop star produce 33 ovuli, un record! Di solito ne prelevano al massimo 12. A novembre 2017 dalla clinica americana mi comunicano che tra gli ovuli fecondati in vitro ben 18 sono diventati embrioni.
Nel frattempo dall’altra parte dell’oceano, a casa mia, mi fidanzo con Stefano. All’inizio non gli dico niente – non facciamolo scappare subito! –, accenno solo al viaggio che ho già organizzato negli Usa. Stiamo insieme da appena un mese quando arriva la lettera dalla clinica in cui c’è scritto che dei 18 embrioni 8 sono sani: cinque di sesso maschile, tre femminile. A quel punto penso “Lui lo deve sapere. Perché se poi c’innamoriamo?”. “Ti devo parlare”, lo convoco. Ansioso com’è va nel panico. “Ti ricordi del viaggio in America? Andiamo perché sto per avere un figlio”. Tira un sospiro di sollievo: “Chissà che m’immaginavo! Mi hai fatto scantare”. Pensava avessi una moglie da qualche parte. Per incoscienza e per l’amore che già sentivamo, da subito Stefano ha parlato di Enea come di “nostro” figlio. La conquista più grande per me che pensavo sarei rimasto solo, perché la maggior parte dei ragazzi gay fa fatica a prendere impegni con un partner, figuriamoci con una famiglia. Lui è un ex studente della mia università. In chat prima di inviargli una mia foto temetti: “ora se mi risponde buonasera prof mi si crepa la faccia”. Invece ha risposto: “Ciao Giovanni, ci prendiamo un caffè?”. Così è iniziata. Mai avrei pensato che alle mie parole “Hai un anno di tempo. Quando nasce il bambino devi aver deciso: stai o vai” rispondesse sposiamoci. Da quel momento lui e la sua famiglia hanno fatto un salto quantico. Non sapevano neanche che fosse gay. Per dire loro dell’arrivo del bambino abbiamo aspettato che tornasse per le ferie suo fratello che vive in Canada. È stata Rosa, la cognata canadese super smart, ad aiutarci a raccontarlo ai miei suoceri. Sono stati subito dalla nostra parte. La mia famiglia poi, dove vige un patriarcato di facciata e un matriarcato di fatto, è super felice dell’arrivo del nipote. Mia madre e mia suocera hanno cucito tutto il “cucibile” per Enea. Se non fosse per il Coronavirus anche mio padre e mia sorella sarebbero venuti con noi negli Usa per la nascita del nipote.
“Scegliete l’embrione più sano”, ho detto al dottore della clinica californiana quando lo scorso 15 agosto l’ha impiantato nella pancia di Noa, la mamma surrogata proposta dall’agenzia. A differenza dell’ovodonatrice con cui per legge non ho avuto alcun tipo di contatto, con la mamma surrogata il match è anche psicologico, cioè ci si deve piacere a vicenda. La procedura prevede di scambiarsi un test con una serie di domande tipo: sei etero/gay? Hai un compagno? Come intendi crescere il bambino? Solo dopo l’ok a procedere da entrambe le parti ci si conosce, nel nostro caso con una Skype call. Noa sposata con una donna ha una figlia di tre anni. Per lavoro si occupa di minori con disabilità. Vive a Boise, capitale dell’Idaho. Ci siamo piaciuti. Ma abbiamo dovuto aspettare un altro anno prima di dare inizio alla gestazione perché durante uno dei tanti screening fisici (oltre quelli psicologici) ha scoperto di doversi sottoporre prima a un intervento chirurgico. Poi però durante i nove mesi della gravidanza ci ha tenuti aggiornati su ogni visita, ecografia e “movimento” di Enea nella sua pancia. Ci ha anche chiesto di inviarle dei messaggi vocali da far sentire al bambino. E con Stefano ci siamo messi a raccontargli le favole da remoto. Nell’attesa di guardare negli occhi un figlio tanto desiderato ma apparentemente “impossibile”, nato (sano e sorridente) in piena pandemia. Se ce l’avessero detto prima non ci avrebbe creduto nessuno.
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Elle 17/2020